Qualche tempo fa la preside della mia scuola, con l’apparente noncuranza che hanno tutte le velate minacce, mi disse che ormai mi sarebbe convenuto mettere da parte le proteste e le lotte. Ero diventato un papà. Questo doveva fare di me un uomo responsabile e previdente. Magari il suo era solo un consiglio spassionato. A me, chissà perché, suonò piuttosto come un avvertimento.
Suonava più o meno così: non mi fare arrabbiare, che non ti conviene. Riga dritto, che devi portare il pane a casa. Le risposi con un verso di Paolo Conte (dubito però che lei colse il collegamento). Dissi che se questo era un mondo di adulti, avremmo finito per sbagliare da professionisti. Poi aggiunsi che una logica rudimentale come la sua, a mio giudizio, offendeva la memoria di Paolo Borsellino. In classe ne avevamo parlato a lungo. Borsellino sarebbe stato un papà migliore se non si fosse fatto ammazzare?
Così, con la stessa naturalezza con la quale quel giorno avevo ritagliato la foto di Paolo Borsellino per attaccarla dietro la cattedra, continuai le mie lotte nella scuola. L’obiezione di coscienza all’Invalsi arrivò a maggio. Seguirono un provvedimento disciplinare e la riprovazione di quasi tutti i miei colleghi.
Chiamato in causa nel corso di un collegio docenti di fine anno presi la parola, ma non per ribadire la mia posizione nei confronti di quella pericolosa pagliacciata che risponde al nome di test Invalsi. Cercai piuttosto, nel disinteresse generale di un collegio distratto e con la testa già sotto l’ombrellone, di esprimere un parere pù generale. Qualunque sia la disposizione di legge o la direttiva del proprio superiore, ogni uomo deve rispondere innanzitutto a se stesso. E se l’ordine che gli viene impartito è in contrasto con la propria coscienza, ha il dovere di opporre un rifiuto. Un rifiuto netto, senza badare troppo alle conseguenze a cui si va incontro. Non possono essere la paura, una valutazione di convenienza o la semplice obbedienza, il motore della nostra condotta. L’obbedienza non è una virtù. Vedere alla voce don Milani.
A questo ripenso oggi, in un momento in cui si è accesa la polemica intorno alla sepoltura di Erich Priebke. Il fatto di aver eseguito degli ordini non può essere un’attenuante. Mai. Soprattutto quando l’ordine è quello di uccidere.
La legge dell’obediencia debida, che provò a scagionare i criminali della dittatura argentina, sollevandoli dalla colpa di aver torturato, ucciso e fatto sparire trentamila persone, fa ribrezzo. Dichiarare che non è punibile per i delitti commesi chi li ha compiuti in virtù dell’obbedienza dovuta, equivale a cercare di sottrarsi al giudizio della storia.
La legge dell’obbedienza dovuta, anche se dopo 18 anni dalla sua promulgazione, fu dichiarata incostituzionale. Giustamente. Perché delle proprie azioni si è sempre responsabili. Si è scelto, ci si è schierati. Se non si è opposto un rifiuto i motivi possono essere tre. Ugualmente condannabili. O sei pavido, perché hai soggezione dell’autorità e paura della sua punizione. O magari sei astuto e pensi al tuo tornaconto. Oppure, e forse è anche peggio, una coscienza non sai neanche cos’è.
p.s.
L’illustrazione in copertina è di Alberto Ruggieri.
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