Fa freddo. Fa freddo anche se c’è il sole e la primavera ha coperto di fiori i rami degli alberi. Mi chiedo come stiano ora l’Agapanthus e l’Amaryllis che ho regalato quasi fossero una cauzione, versata in anticipo nel tentativo disperato di raccontare sentimenti che poi il cassiere del tempo avrebbe respinto. L’Amaryllis consegnato un giorno nel corridoio di una scuola e l’Agapanthus entrato tempo dopo nel camerino di un teatro.
Fa freddo anche se adesso le giornate si sono allungate. Sposto i pochi vasi che ho nella zona del balcone più lontana dall’inverno e controllo che le gemme della Rosa del deserto, messa fuori dopo i tanti mesi passati in cucina, non manifestino segni di sofferenza. Il freddo può bruciare come un sole africano. Nell’angolo più in ombra restano soltanto l’Orgoglio di Madeira, la Scilla Peruviana, e il bulbo del ciclamino selvatico che ancora dorme. Chissà se si sveglierà qui o nella casa dove andrò a vivere. Lì ci sarà lo spazio per veder crescere una nuova foresta.
Fa freddo. Metto le mani nella terra creando il composto giusto di torba e sabbia per la talea di Sedum che ho preso per la strada e intanto penso che in fondo aveva ragione George Harrison. Non c’è bisogno di fare il maestro elementare, siamo comunque tutti dei giardinieri. Capaci o no, consapevoli, attenti, distratti, insensati o disgraziati. Non importa. Tutti guarderemo crescere quello che noi stessi abbiamo piantato.
L’Amaryllis di A. sta una favola, in attesa anche lui della primavera!
vi abbraccio