Ci vollero un bel po’ di giorni prima che G, in prima elementare, dicesse le sue prime parole. Ricordo il mio sconcerto. Le facevo domande facili. Le chiedevo se durante l’estate appena terminata fosse stata al mare, se avesse un animale preferito, quale colore avrebbe scelto per i petali di un fiore. Lei mi guardava fissa, con gli occhi accesi di chi quelle risposte le ha, ma poi rimaneva zitta.
Le stesse domande capaci di aprire negli altri bambini l’interruttore di racconti poi difficili da arrestare, con G sbattevano sempre sulla porta chiusa di quegli sguardi e quei silenzi. Avrei capito dopo che G in quel primo periodo di scuola aveva bisogno di osservare con attenzione il mondo che le si andava aprendo davanti, studiando tutti i personaggi che in qualche modo e a vario titolo quel nuovo mondo lo popolavano.
Poi G un giorno finalmente mi parlò. Aveva guardato abbastanza. Aveva studiato abbastanza quello strano maestro dai capelli lunghi. Adesso si poteva affidare. Dopo tanti anni ricordo ancora le sue prime parole, frutto di un ragionamento che mi sorprese e che di colpo spazzò via tutte le mie preoccupazioni.
Durante una ricreazione in cortile avevo chiesto a qualcuno di chiudere il cancello della scuola che era rimasto aperto. Allora G, seduta come al solito sulla panchina vicino a me, parlò. Prese lei l’iniziativa. Senza neanche dover rispondere a una delle domande che le facevo ogni tanto nel tentativo di instaurare un contatto.
«Sennò i bambini possono uscire fuori». Ecco cosa disse.
La storia tra il maestro capellone e G comincia così. Negli anni diventerà un viaggio incantato, ma inizia con una piccola bambina che un giorno decide di fidarsi e un maestro che nel periodo che seguirà sarà perfino costretto ogni volta che va via a lasciarle qualcosa di suo per rassicurarla sul fatto che sarebbe tornato.
Ora G è cresciuta. Ci siamo presi una cosa al bar qualche giorno fa. Il fiore sbocciato nei cinque anni di scuola elementare continua ad aprirsi di colori bellissimi. Mi ha fatto leggere una cosa che ha scritto durante l’esperienza del lockdown. È stato emozionante, del resto le parole di G, da quel giorno in poi, sono sempre state parole piene di significati.
Non ti fermare G. Verrà di sicuro il giorno in cui le tue parole potranno essere date in regalo a qualcuno e lette magari prima di una buonanotte, fino a riempire di immagini e sensazioni gli occhi e i sogni di chi le incontrerà.
Che bella storia, quello che mi piace di più è il rispetto dei tempi dell’altro che intanto studia e poi quando vuole decide di partecipare sei aprirsi
ciao maupao, metti il dito in una piaga. Viviamo in un mondo che fa del tempo qualcosa che si vive innaturalmente, con l’approccio di chi ingurgita e non assapora. Temo che neanche l’esperienza della quarantena sia servita a farci riflettere. Appena possibile abbiamo ripreso a correre. Come ho scritto in tante occasioni anche la scuola ha smarrito, da tanto tempo, il piacere e la fecondità della lentezza.
Sembra l’inizio di una storia. Negli anni ho imparato che i bambini ti guardano dentro, il tuo aspetto esteriore gli interessa solo per ciò che rivela di te, e questo è ancora più vero per quei bambini un po’ “speciali”. La loro vita interiore e la loro emotività sono talmente dense e viscerali da fargli sentire il bisogno di mettere un argine verso il mondo esterno. Se vogliamo che si aprano e si affidino a noi dobbiamo trasformare il nostro atteggiamento e cercare un contatto più profondo, un filo che ci lega a loro. Ma dobbiamo aspettare che siano loro a manifestarsi, con i loro tempi e i loro modi. Solo così può iniziare l’avventura di esplorare l’universo dell’altro.
sì Laura. Questo è un mondo che non sa più aspettare e che non riconosce a ciascuno la propria unicità. Anche nella scuola. Si corre. Si misura. Si valuta. Si è persa la pazienza del giardiniere.