La casa delle bugie. Ovvero la scuola spiegata al mio barista (parte terza)

pinocchio di Giulia RossenaQuando Sandro mi parla della scuola di sua figlia e con un certo orgoglio mi racconta che dalla lettura delle tabelle pubblicate sul sito si intuisce che è la migliore della zona, capisco che la giornata è iniziata in salita. Se avesse tirato in ballo l’ultima partita della Roma sarebbe stato un inizio più semplice. Il tempo del caffè, compreso il supplementare alla cassa, costringe alla sintesi. Pretende aforismi, mica analisi profonde.

Sandro mi presenta agli altri avventori dicendo che sono un maestro. So bene che essere un maestro non fa di me l’interlocutore principale nella discussione. Tutti sanno poco della scuola, ma chiunque ha facoltà di ritenersi in proposito depositario di verità inoppugnabili. Del resto un’esperienza scolastica l’hanno avuta tutti, questo basta e avanza per sentirsi titolati a entrare nel merito. Che poi sarebbe come mettersi a disquisire sulla riflessologia plantare per il solo fatto di aver camminato un’estate intera scalzi sulla spiaggia.

Tanto per cominciare devo fare delle scelte. Lascio stare il cuore del problema, cioè quanto sia deleterio trasformare gli Istituti scolastici in aziende perennemente in competizione tra loro, o pretendere di misurarli e compararli come se fosse davvero possibile uniformare realtà originali e irripetibili. Mi limito a parlare della strada scelta per realizzare tutto questo, perché la dice lunga sulla serietà e la buona fede delle moderne politiche scolastiche.

Il sistema dell’autovalutazione, come richiesto dalla buona scuola di Renzi, quel sistema che chiede a ogni scuola italiana di misurare e giudicare se stessa, di quotarsi autonomamente sul mercato dell’istruzione, è RIDICOLO e perfettamente inutile.

Se esistessero tabelle pubbliche che cercassero di indicare il valore e la professionalità di medici, meccanici, avvocati, ma fossero compilate dagli stessi interessati, sarebbero degne di fede? È scontato che ognuno cerchi di essere convincente, metta in mostra il vestito migliore e faccia l’elogio della propria efficacia. Avete mai sentito qualcuno consigliarvi un prodotto o un servizio proposto dalla concorrenza?

Al pari di qualsiasi altro esercizio commerciale anche un Istituto scolastico ormai ha tutto l’interesse ad apparire virtuoso. Dichiarandosi perfettamente efficiente, in ossequio ai parametri indicati dal Ministero della Pubblica Istruzione, una scuola oggi ha buone speranze di ricevere premi e incentivi, perfino di trasformarsi in terra di conquista per gli sponsor. I soldi, pubblici o privati che siano, fanno sempre gola. Sotto un certo numero di iscritti, invece, la scuola scompare, sacrificata sull’altare dei tagli alla spesa pubblica. Chiusa, oppure (nel migliore dei casi) accorpata ad altri Istituti, un’eventualità che prevede la riorganizzazione dell’organico, con la conseguente perdita di posti di lavoro. Salta la figura di un dirigente, si perdono alcune unità nel personale di segreteria, a seguire anche docenti e bidelli, costretti tutti all’inevitabile trasferimento.

Gli Istituti scolastici lottano per la sopravvivenza. L’open day e le pagine web, zeppe di tabelle e percentuali, sono buone occasioni per operazioni di marketing. Più utenza riesci a convincere sull’opportunità di mettersi in lista per un’iscrizione, più allontani lo spettro di una rimozione forzata.

Mi chiedo cosa succederebbe se, secondo gli stessi principi e con le stesse modalità, fossero chiamate ad autovalutarsi le famiglie. Le famiglie che rientrassero nei parametri di eccellenza avrebbero diritto a un bonus di spesa mensile al supermercato o l’abbonamento gratuito a Sky. Perfino la famiglia di Peppe ‘o Caimano risulterebbe irreprensibile.

Lo strumento dell’autovalutazione, che le scuole utilizzano inevitabilmente per farsi belle, è in realtà una trappola ben congegnata. Prima di tutto serve al sistema centrale per controllare il grado di asservimento delle singole unità scolastiche e condizionarne l’orientamento. I parametri per l’analisi sono fissati infatti in modo rigido senza alcuna possibilità di scantonare. Uno di questi è il grado di informatizzazione dell’Istituto e la sua adesione al piano nazionale per la scuola digitale. Mi chiedo secondo quale principio pedagogico la  supermoderna aula informatica di una scuola del nord o il numero di Lim o tablet presenti nell’Istituto possano valere così tanti punti nella valutazione sul merito di una scuola, mentre il lavoro sulla legalità svolto in un cortile sgarrupato di una scuola a Secondigliano valga zero. In secondo luogo l’autovalutazione mina l’intesa e la solidarietà tra i singoli docenti perché prevede un premio economico ai migliori, misurando anche loro secondo parametri inadeguati e non pertinenti. I migliori, inutile dirlo, sono quelli che più si attengono alle direttive del Ministero.

La verità, caro Sandro, è che siamo dentro la grande fiera della bugia. Perché qui mentono tutti. Mente il Ministero della Pubblica Istruzione quando assicura di aver messo in piedi una politica scolastica degna di questo nome, mentono le scuole nel rapporto di autovalutazione che sono chiamate a produrre (il fantomatico RAV) e quando si presentano alle famiglie, mentono molti docenti per paura o per convenienza. Con quale faccia possiamo pretendere la sincerità e la lealtà dai nostri ragazzi?

p.s.
Il pinocchio in copertina è di Giulia Rossena

Informazioni su RP McMurphy

Chito e RP McMurphy vivono a Roma, ma qualcuno giura di averli visti più volte dalle parti di Maracaibo. Hanno un amore dichiarato verso tutti i sud del mondo e un’istintiva simpatia per chi vive ai margini.
Questa voce è stata pubblicata in scuola e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.

5 risposte a La casa delle bugie. Ovvero la scuola spiegata al mio barista (parte terza)

  1. lezzy ha detto:

    Hola McMurphy,
    con permiso;
    “La verità, è che siamo dentro la grande fiera della bugia. Perché qui mentono tutti.”
    Incredibile ma verissimo, e se ci osserviamo in profondità, scopriremo che siamo un po tutti Sandro: verdad ?!
    A volte mi chiedo come si può “perdonare” chi ha procurato tanto di quel male nel mondo…. In primis, al Papa&Co. , che si credono padroni del Cielo e della Terra.
    Un abbraccio

  2. Renata puleo ha detto:

    Il dott Ricci (la “voce” dell’INVALSI), parlando ai docenti di un grande istituto scolastico di Roma, ha vantato la superiorità dei “dati” sulle opinioni. Ha abbinato ai primi l’osservazione “scientifica” e le tavole numeriche, alle seconde i nostri discorsi da bar. La sua riflessione è tautologica, circolare: i dati sono veri perché i fenomeni vengono rapportati al numero (delle variabili, delle incidenze, delle deviazioni: ma non voglio annoiare il tuo barista, né chi si sta prendendo il caffè e già deve ascoltare alla TV l’ennesima sfilza di numeri che riguardano le banche, i titoli, le proiezioni elettorali…).Il numero è vero per sua natura.
    Ma i “Signori INVALSI” sono furbi, sanno che fa assai presa, non solo sui baristi ma anche su molti professionisti e insegnanti, accostare il quantitativo al qualitativo.Prova a dire a Sandro che si tratta di chiedere a qualcuno che ne pensa della scuola, della sua, di quella di suo figlio, di quella dove insegna, dunque di dare un’opinione! Così si inventano il RAV, il rapporto – pardon il format – di autovalutazione ad uso alle scuole, anzi no, al nucleo di insegnanti che si presta (per affetto verso il dirigente o per ferrea fede INVALSI) a compilarlo. Ma, il problema è che la ricerca e l’osservazione sono guidate, eterodirette in base a decisioni prese prima, sempre dai Signori INVALSI su quel che bisogna dire e in che modo dirlo. Una testa pensante, un premio Nobel, tal Herbert Simon, ha elaborato un sistema di ricerca che prevede che si assuma, prima di iniziare l’osservazione, una decisione su cosa si vuole sapere e perché. Così si “indirizza” la ricerca verso ciò che si vuole trovare, lo si implementa, si escludono le sorprese. Inutile dire che si è occupato di organizzazione aziendale. Nel nostro caso, la bugia – nel senso anche della semplice reticenza a dichiarare perché si fa qualcosa – sta a monte e a valle, ovviamente, come ben dici tu.
    Certo, se proprio si volesse aggiungere nel RAV qualcosa di personale, di tagliato sulla propria scuola o su un problema specifico, si può fare, come no, basta usare gli spazi in calce alle schede. Uno straordinario esercizio di sintesi: 1500 caratteri, spazi inclusi. Il tuo pezzo, caro Flavio ne ha 5350. Sei fuori. Renata
    PS. su http://www.genitoreattivo.wordpress.com. provo a scrivere un commento al format,spero leggibile da baristi e da altri lavoratori.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...