Sono ormai tanti i casi che conosco di ragazzi poco più che adolescenti entrati seriamente in crisi davanti a una difficoltà. Che poi è sempre una difficoltà di relazione. A scuola, in famiglia, con se stessi. In alcuni casi si ricorre a una terapia psicologica, in tante altre situazioni purtroppo bisogna fare di più. Il ragazzo inizia un percorso psichiatrico, farmacologico, che talvolta prevede perfino la necessità di un ricovero ospedaliero.
Mi sono chiesto perché. Mi sono chiesto che diavolo abbiano queste giovani generazioni, la cui vita scorre apparentemente facile e tranquilla, mentre invece nasconde una così grave debolezza strutturale.
È evidente che, facendo un’analisi sulle fragilità di una generazione, sotto accusa ci finiscano gli ambienti nei quali quella generazione dovrebbe crescere e formarsi, la famiglia e la scuola. E che, più in generale, la valutazione riguardi la gestione di una vita che all’apparenza appare quanto di più splendido non si potrebbe immaginare, ma che invece presenta i tarli di una profonda inquietudine esistenziale e il tormento di una insicurezza tanto peculiare da apparire perfino costitutiva.
I nostri ragazzi non crescono lungo un percorso che ha come obiettivo primario quello di far raggiungere loro una piena autonomia. Che miri a trasformarli in soggetti indipendenti, quali sarebbero in realtà, prima ancora che figli o studenti. Persone ben strutturate, capaci di affrontare, se dovesse capitare (e prima o poi succede), la frustrazione, l’attesa, l’insuccesso.
Dal mio punto privilegiato di osservazione, come maestro elementare, osservo i bambini e quello che vedo mi appare abbastanza chiaro. I bambini oggi sono ostaggio dell’adulto. Talvolta sembra quasi il contrario, ma non è così. La tirannia dei piccoli sui grandi è soltanto il frutto di un’attenzione ansiosa e persistente che li trasforma facilmente in soggetti dispotici. Tutte le attività in cui è coinvolto il bambino sono caratterizzate dal controllo asfissiante dell’adulto. Che si tratti del calcetto, della chitarra, della danza, del tempo trascorso negli spazi della parrocchia o nella scuola, al bambino si finisce sempre per presentare un modello preconfezionato nel quale tutto è già stabilito e le relazioni con gli altri, così come l’approccio agli eventi, sono decisi da un sistema di regole indiscutibili in grado di mantenere l’ordine e prevenire situazioni di crisi.
Nel mondo di oggi, davanti alla minima difficoltà del bambino, l’adulto interviene immediatamente. Interviene per sanare un torto subíto, per difendere, per scagionare, per riportare la quiete, per sedare i contrasti, per mediare, per proteggere, per salvaguardare dall’ansia.
Una volta i bambini giocavano per la strada o nei cortili. Lì, sfuggivano il controllo diretto degli adulti e avevano occasione di costruirsi un bagaglio di esperienze personali avendo a che fare con coetanei, ma anche con bambini più piccoli e bambini più grandi. Lev Vygotskij la chiama zona di sviluppo prossimo. Lì i bambini assaggiavano la grammatica che avrebbero poi imparato a usare, vivendo tutta una vasta gamma di esperienze e trovando ogni volta risposte e strategie personali che sarebbero risultate significative nel loro processo di crescita.
I bambini oggi, persa la dimensione del cortile e della strada, non hanno più l’opportunità di quell’esercizio di relazioni e non hanno accumulato quel capitale di esperienze. Di contro la scuola e la famiglia non lasciano spazi di autogestione. Ma l’autonomia, il senso di responsabilità per le proprie azioni che ne consegue, la stessa leggerezza del vivere, non arrivano per miracolo. Sono veri e propri traguardi da raggiungere a tappe, con fatica, e devono essere inseguiti lungo tutto il processo di sviluppo. Altrimenti otterremo ragazzi fragili, piccoli uomini e piccole donne pronti a spezzarsi alla prima esperienza senza paracadute. Perché non è il paracadute il vero gesto d’amore. Il vero gesto d’amore è insegnare a volare.
Certo Flavio hai ragione. Se ripercorro la mia vita mi rendo conto di aver fatto molti più errori da madre che da nonna, nonostante l’anziano, in quanto ansioso, dovrebbe essere più protettivo. Invece ho lasciato molto di più liberi i nipoti mentre continuo a preoccuparmi per i figli oramai ultraquarentenni.
Anche io noto un continuo controllo e intervento da parte dei nuovi genitori e spesso mi stupisco, ma devo anche ammettere che l’equilibrio è difficile e il filo davanti al quale bisogna tirarsi indietro o intervenire è davvero sottile.
Ci aspetta sempre un caffè davanti al quale confrontarci. Ciao
Il tuo bell’articolo mi ha fatto venire in mente un piccolo brano di Apollinaire: “Li portammo sull’orlo del baratro e ordinammo loro di volare. Resistevano. Volate, dicemmo. Continuavano a opporre resistenza. Li spingemmo oltre il bordo. E volarono.”
Per tante ragioni, tuttavia, non è facile per un genitore arrivare ad essere capace di “spingere oltre il bordo”. Non facile, perchè lasciar andare ciò che si ama è sempre difficile, e chiede fiducia, e impone comunque di affrontare un rischio. Non facile ma necessario, se è vero che si cresce (come figli, come studenti, ma pure come genitori) anche sapendo affrontare i pericoli della navigazione in alto mare (e, in fondo, non siamo poi tutti in balia delle onde?). Buon 1 maggio.
Sì, non è facile. Ma l’amore, di qualsiasi amore si parli, il vero amore, non può essere altro se non una assoluta, incondizionata e implicita rinuncia a se stessi. Senza calcoli, senza avarizie, senza egoismi, o ricerca di un proprio guadagno. È un dare che può avere insito al suo interno perfino il concetto stesso di perdita dell’altro. Che poi perdita non è mai.
Sì, non è facile. E nessuno può insegnarci come fare.
Da un po’ non commento e me ne dispiaccio, ma tu sai in quali lacci noi – NoINVALSI e “appellanti” – siamo presi…ma rieccomi. Qualcuno sostiene, forse non a torto, che l’adolescenza non esiste in quanto fase dell’età evolutiva. Invenzione “borghese” per portare a compimento il passaggio dall’infanzia alla giovinezza dei bravi “delfini. Oggi tutto si complica, con il complicarsi dei rapporti sociali (di produzione, sempre: ah il buon vecchio di Treviri!).
Genitori frustrati, individualità nevrotiche, centrate su se stesse, prive di senso del collettivo, dimensione dell’etico e dunque del politico…i figli specchi su cui trasferire risentimenti, rivendicazioni non elaborati nel conflitto. E che dire degli insegnanti che fanno da modello con l’obbedienza pavida millantata per efficienza/efficacia?
Ricordi “Elephant” , il film di Gus Van Sant scritto dopo la strage di Colombine del ’99? L’adultità è solo un lontano sfondo, uno sfocato orizzonte senza senso. Come nei fumetti di Charlie Brown, ma senza bonomia e buon senso infantile.
Lev Vygotskij: oggi tirato per la giacchetta a sostegno del mantra delle competenze. Altro errore epistemologico – e per questo politico – in cui intrappolare i giovani.
Buon Primo Maggio anche ai commentatori abituali di McMurphy, la Nonna e Ivan (ciao Ivan!)
Bentornata sul blog Big Chief.
Non riesco a non collegare questo post, che condivido profondamente, con un altro, letto da poco: http://genitoricrescono.com/tema-del-mese-ripensare-la-maternita/. Non è solo l’ansia a far sbagliare noi genitori, ma anche
… (continuo, ho inviato per errore) il crescente peso del giudizio altrui. Il giudizio sulla genitorialità (e sulle madri specialmente) c’è sempre stato, da che mondo è mondo. Ma si limitava alla suocera, ai familiari, alla cerchia relativamente ristretta dei conoscenti. Oggi ci sentiamo tutti molto molto più esposti. E la pressione aumenta a dismisura. Dai gruppi whatsapp ai social, ogni chiacchiericcio si amplifica. La cosa ha il suo peso, anche quando si pensa di avere le spalle larghe.
Quello che dici è vero, ma purtroppo è troppo spesso un gioco al ribasso. https://glioplitidiaristotele.blog/2016/04/21/quello-che-fanno-gli-altri/