Che i programmi e i progetti della buona scuola siano il risultato di decisioni prese da personaggi completamente all’oscuro di scienza dell’educazione è purtroppo evidente. Con buona probabilità si rischierebbe lo stesso effetto se una squadra di pescatori di merluzzo fosse chiamata a teorizzare sulle tecniche di coltivazione della barbabietola. Se non fosse che i pescatori di merluzzo magari qualcosa di sensato sulla barbabietola sarebbero pure capaci di pensarla.
I nuovi teoreti della scuola no. Ad aspettarsi da loro qualcosa di ragionevole si resta facilmente delusi. Per loro la scuola è, e resta, una dark room dove dare impunemente sfogo ai propri istinti di egocentrismo e blasfemia.
La mistificazione più evidente che commettono i nuovi soloni dell’Istruzione è nella prospettiva. Che a sballare prospettiva, se ti chiami Vincent Van Gogh e stai raffigurando la tua stanza, va bene. Ma se ti stai occupando di scienza dell’educazione e programmi scolastici, fai solo dei disastri. Senza se e senza ma.
La scuola si è ammalata di calcolosi acuta. La furia dei test, delle misurazioni delle competenze, dei rilevamenti in ingresso e in uscita, dei conteggi, delle stime, ha fatto perdere di vista che il processo è più importante del risultato e che il valore di un percorso scolastico è nel suo cammino di formazione, nelle esperienze e nelle relazioni che si vivranno in questo percorso di crescita, non nel calcolo numerico delle abilità nude e crude che si acquisiranno.
Molte delle cose che impariamo a scuola le dimenticheremo abbastanza velocemente. Non chiedetemi per esempio come si costruisce in latino una perifrastica passiva, come si fa un’ossidoriduzione, o il nome di un generale giapponese a Okinawa. Io non me lo ricordo. E dire che in latino avevo 9, così come in biologia e in storia.
A scuola (nella scuola che faccia formazione e non semplice informazione) il viaggio è più importante della stazione di arrivo. Allo stesso modo in cui il processo dell’andare in bicicletta, imparare a farlo così come acquisire la consapevolezza e la capacità del saperlo fare, è più importante del luogo verso cui si sta andando. Che magari stai andando solo a prenderti un gelato.
Guardo Maira in cucina preparare i biscotti e le torte con la mamma. Mettersi lì a fare i biscotti insieme è molto più importante che mangiarli dopo. Chiunque abbia fatto questa meravigliosa esperienza sa di cosa parlo. Col grembiulino davanti a montagnette di farina, Maira aggiunge gli ingredienti, utilizza i giusti strumenti, frulla, impasta, crea delle forme, imburra la teglia. Chi ritenesse che così Maira stia imparando l’arte della cucina, sbaglia. È molto di più. In realtà vive un prezioso momento di condivisione, esercita la sua motricità fine, sperimenta la connessione logica che lega le azioni in un processo orientato verso un obiettivo, acquisisce sicurezza in se stessa, comprende la necessità di alcune regole pur nel contesto di una esperienza creativa, verifica l’infruttuosità della fretta, vive delle emozioni (impara, per esempio, a gestire la frustrazione quando qualcosa non le riesce come dovrebbe).
Durante quei pomeriggi passati in cucina Maira cresce. Questa è la verità. Semplice e perfino banale. Non è un mistero allora quanto i sapientoni dell’Istruzione siano pesantemente fuori strada. Anche Nonna Papera li bacchetterebbe. Ricordate il suo antico manuale? Era un trattato di pedagogia molto più ragionato di quelli che ispirano i nuovi orientamenti. Perché in questi tempi, se il pomeriggio in cucina con la mamma fosse una pratica scolastica, qualcuno penserebbe subito di venire a contare i biscotti e sottoporre Maira ad una prova per testare le sue competenze culinarie.
L’ha ribloggato su Quijote Travels.