Si può parlare di Shoah a una classe di bambini di 6 anni? Penso di sì. Non fosse altro perché vale sempre la pena provare a raccontare il pianeta che è toccato loro in sorte e perché non si può lasciare che le informazioni frammentarie di un bombardamento mediatico a cui i bambini sono comunque inevitabilmente sottoposti agiscano incontrastate e senza filtri, con il rischio che costruiscano mostri nel loro immaginario.
Un bambino di 6 anni però è una piccola candela che si accende alla vita. Non puoi soffocarlo col buio e neanche sperare che superi indenne la prova se permetti che ci soffi sopra una tempesta. Credo che la Shoah, tra tutte le tempeste abbattutesi nel corso della storia, sia tra le più terribili. Ce ne sono altre. Penso al genocidio del popolo armeno, a quelli perpetrati in Cambogia dai Khmer rossi o dagli Hutu in Rwanda, ai crimini commessi dalla dittatura argentina.
Allora come parlarne ai bambini?
Tante volte un maestro incontra sulla sua strada questo interrogativo. Come parlare ai bambini senza bugie, ma senza terrorizzarli lasciandoli soli davanti ad azioni umane così terribili, nell’impossibilità di gestire un dolore così grande e senza speranza?
Non ho mai creduto giusto rinunciare. Con i bambini non puoi rimandare. Ogni volta che ti fanno una domanda hai il dovere di cercare il modo per tradurre la risposta utilizzando la loro grammatica. Non vale rimandare. Dire a un bambino te lo spiego quando sarai più grande equivale a scappare. A uno straniero che per strada mi facesse capire di aver bisogno di un’informazione non risponderei mai te lo dico quando avrai fatto un corso di italiano.
Così lunedì sono entrato in classe con l’idea che avrei dovuto fare qualcosa per non scappare davanti all’opportunità di onorare la giornata della memoria. Ho detto ai sedici bambini che avevo per l’ora di alternativa di rimettere le giacche perché saremmo usciti. Poi a piedi siamo arrivati davanti ai vecchi palazzi di piazza Rosolino Pilo. Guardate. Una volta questi palazzi erano i più alti di tutto il quartiere. Undici piani sembravano così tanti che la gente li chiamava i grattacieli. Un giorno di tanti anni fa una legge (una cattiva legge, fatta da uomini cattivi) proibì ad alcuni bambini che vivevano qui di andare nella scuola dov’erano sempre andati. Da quel momento in poi non sarebbero più potuti stare con i loro vecchi compagni e giocare con loro. Allo stesso modo i loro genitori furono mandati via dal lavoro. La loro colpa era semplicemente quella di essere ebrei. Invece di pregare in chiesa, pregavano in un luogo che si chiama sinagoga.
Siccome i bambini ebrei e i loro genitori in realtà erano uguali a tutti gli altri, furono fatte cucire delle stelle di stoffa sui loro vestiti in modo che tutti potessero riconoscerli e allontanarsi quando passavano. Tutti li scansavano. Quando entravano in un negozio per comprare il pane il fornaio diceva che il pane era finito, anche se dentro il negozio ne vedevi una montagna. La vita era cambiata. Adesso era brutta. Ma poi arrivò il giorno più brutto di tutti.
In questa piazza giunsero dei camion di soldati. I soldati entrarono in questi palazzi. Cercavano tutti gli ebrei per imprigionarli e portarli lontano, molto lontano da casa. Ma siccome i bambini ebrei e i loro genitori, senza i cappotti con le stelle cucite sopra, erano uguali a tutti gli altri, i soldati che entrarono nelle case avevano bisogno di qualcuno che indicasse quali fossero gli appartamenti abitati dalle famiglie ebree. Una delle persone che fece la spia e aiutò i soldati fu proprio la portiera. Si chiamava Apollonia.
Una di queste finestre era la casa di Lia. Lia era una bambina ebrea che si salvò e non fu portata via perché le suore qui vicino, in via del Casaletto, la nascosero nel loro convento fino alla fine della guerra.
Torniamo a scuola. Chiedo ai bambini se quando succede una cosa brutta è meglio dimenticarla oppure conviene ricordarla. Si apre una discussione. All’inizio i bambini sembrano concordi. Bisogna dimenticare i brutti episodi, dimenticarli il prima possibile. Poi però una bambina apre il fronte per una nuova riflessione. Quando da piccola mi sono scottata con la pentola sul fuoco ho capito che il fuoco era pericoloso e non mi sono più avvicinata. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se ogni brutta esperienza dovesse sparire dai nostri ricordi. I bambini hanno cambiato opinione. Bisogna ricordare, sennò sarebbe un guaio. Ecco ho detto io. Avete trovato proprio il senso di questa giornata. Si chiama appunto giornata della memoria. Per questo vi ho raccontato la storia di Lia. Così certe cose brutte non succederanno più.
Stamattina abbiamo letto il suo articolo con mio figlio di sei anni, che alcuni giorni fa, dopo essere stato colpito dall’immagine di Anna Frank sulla copertina di un libro della nostra biblioteca di casa, aveva voluto conoscerne la storia. Io gli avevo parlato dei nazisti, dell’odio e dell’amore, senza soffermarmi sul lager e sulle altre atrocità della seconda guerra mondiale. Stamani gli ho detto: “Vuoi sapere qualcosa di più sulla gente di Anna Frank? Leggiamo il racconto di un maestro che insegna in una prima elementare”. Il bimbo ha subito annuito. Abbiamo da poco visto al cinema “Belle e Sebastien”, un film a mio parere delicato ed edificante, che lo aveva già sensibilizzato, tra l’altro, sull’importanza della Resistenza e sul valore della solidarietà con gli altri uomini e del rispetto della natura. Così stamani abbiamo stampato la seconda parte del suo intervento e lo abbiamo letto insieme. Il bambino mi ha fatto tante domande. Ad alcune ho cercato di rispondere mentre altre sono rimaste aperte, anche perché io stessa non ho e non voglio dargli tutte le risposte. Posso però trasmettergli il gusto per la riflessione, la domanda, lo stupore di fronte a quanto incontriamo nel mondo. La ringrazio per questa bella mattinata.
Grazie a voi per la visita. «Stupore» è una parola che mi piace. Una parola magica. Spero anch’io che i bambini, crescendo, non smarriscano mai la capacità di meravigliarsi. La scuola non dovrebbe essere altro che un percorso di continue sorprese. Il luogo dove, contemporaneamente, nutrire e mantenere vivo questo stupore. Sarà così? Speriamo.
fufù
“Quando da piccola mi sono scottata con la pentola sul fuoco ho capito che il fuoco era pericoloso e non mi sono più avvicinata.”
Sig. Maestro, il Satori è servito 💡
già, e con l’immediata semplicità che hanno i bambini di guardare in faccia le cose e raccontarcele senza fronzoli e senza arzigogoli.