L’infantilismo delle giovani generazioni

stupore anni 70Una cosa è essere bambini, un’altra è essere infantili. La prima condizione cambia nel tempo e alcune caratteristiche dell’essere bambino si perdono durante la crescita. Altre magari, come l’attitudine a entusiasmarsi e la capacità di provare meraviglia, sarebbe auspicabile che non cambiassero mai e restassero immutate dentro ognuno di noi. L’essere infantile invece è tutta un’altra storia. Tanto per cominciare non a caso l’espressione è sempre utilizzata nella sua accezione negativa.

Nel suo significato più comune la definizione di infantile si attribuisce a chi manifesta immaturità. Descrive con un’espressione generica chi è incapace di assumersi delle responsabilità, non ha sviluppato facoltà e onestà di giudizio, ha insufficiente autocontrollo e poca attitudine alla concentrazione, è renitente alla fatica e all’attesa, non sa gestire una frustrazione, ha interessi superficiali e un’evidente propensione all’insoddisfazione e alla noia.

Mentre facilmente capiterà di non essere più bambini, appare oggi invece sempre più complicato smettere di essere infantili. I ragazzi, sempre più svegli e stimolati sotto alcuni aspetti, per altri versi continuano a denunciare, anche crescendo, le fragilità tipiche dell’essere infantile, dimostrando un’immaturità che si porteranno dietro anche nell’età adulta. Sul banco degli imputati ci sono la scuola e la famiglia.

La scuola ha smesso da tempo di essere una palestra di relazioni. Oggi annega nella burocrazia, ha paura di tutto e ha perso l’interesse per i singoli, ossessionata com’è dall’idea fissa di valutare e misurare acriticamente qualsiasi esperienza come si fa con le mele sopra la bilancia di un mercato. Non guarda più i suoi studenti, non cerca di capirli e non li prepara alla vita. Gigante d’argilla con sempre meno autorevolezza la scuola deve poi fare i conti con l’aggressione sistematica di tante famiglie sempre pronte a levare gli scudi alla minima occasione. Un’intromissione un tempo impensabile, quando la scuola faceva la scuola, e la famiglia la famiglia, senza interferenze e sleali guerre partigiane.

La famiglia, appunto. Il fatto che oggi i ragazzi siano così emotivamente immaturi, non può non tirarla in ballo. Dato per buono il principio che ogni generalizzazione non fotografi pienamente la realtà, bisogna però riconoscere che fino agli anni 80 in linea di massima nelle famiglie italiane i genitori, più o meno consapevolmente, siano stati capaci di mantenersi in equilibrio lungo la linea sottile che c’è tra il conservare una certa distanza e garantire la propria presenza in merito alle questioni dei figli. Poi lentamente le cose hanno iniziato a cambiare. I genitori che sono arrivati dopo sono scivolati nell’illusione che un maggiore interessamento, un maggior coinvolgimento, non avrebbero potuto che fare bene. Così alla fine sono diventati psicologi, animatori, avvocati difensori, complici, e non è rimasto un solo centimetro nella vita dei figli senza la presenza, l’intervento, la partecipazione attiva dei genitori.

Non c’è bisogno di tirare in ballo la psicologia dell’età evolutiva per comprendere quanto siano controproducenti comportamenti di eccessiva e ininterrotta presenza e protezione. I ragazzi continuano a essere profondamente dipendenti senza mai imparare a prendere decisioni. Non acquisiscono l’autonomia che si guadagna dall’imparare a vivere la vasta gamma di esperienze che scaturiscono dalle proprie azioni e dallo sperimentare sul campo il senso di responsabilità che ne deriva. Funziona ancora la vecchia metafora dell’uomo affamato seduto sulla riva del fiume. Ai nostri ragazzi, allo stesso modo, non dovremmo dare un pesce tutte le volte che lo chiedono, magari con l’idea di averli aiutati. Dovremmo invece insegnare loro a pescare.

Informazioni su RP McMurphy

Chito e RP McMurphy vivono a Roma, ma qualcuno giura di averli visti più volte dalle parti di Maracaibo. Hanno un amore dichiarato verso tutti i sud del mondo e un’istintiva simpatia per chi vive ai margini.
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