Il maestro con la gonna

sarongSono andato a scuola con la gonna. Lo so. Detta in questo modo, da uomo di quasi cinquant’anni con le gambe pelose, non suona tanto bene. Allora questa cosa qua provo a spiegarla. E se poi qualcuno pensasse che a uno così dovrebbero impedire un lavoro come quello del maestro elementare, che al circo dovrebbe stare, oppure immobile sopra una pedana in piazza vestito da faraone, vabbè.

Mica posso persuadere tutti. Ho già seri problemi a convincere mia figlia che gli zombi non esistono. E se lei è disposta a dare più credito alla compagna di scuola piuttosto che a suo papà, capite bene che non posso neanche aspettarmi di essere pienamente convincente sulla questione della gonna.

Tanto per cominciare si chiama sarong.

Il sarong è indossato dagli uomini di mezzo pianeta, ma inizialmente ai bambini fa l’effetto di una tuta appena uscita da un’astronave marziana. Come fosse la divisa di un esploratore alieno venuto da qualche galassia lontana e finito per sbaglio nella nostra classe.

Così quando indosso il sarong e ci vado a scuola, il primo motivo che mi spinge è provare a stimolare nei bambini l’intuizione di altri paesaggi, incoraggiarli verso la conoscenza e l’apertura di nuove prospettive. Rendere chiaro che la nostra realtà e molte nostre verità non sono necessariamente universali. Chiamiamolo pure relativismo delle certezze. La speranza è che poi il bambino comprenda la logica sottintesa in questo relativismo. Se non esiste un centro indiscusso nel pianeta, depositario di una verità universale, non ci può essere neanche nella nostra classe, dove ognuno è chiamato a portare il suo contributo, unico e personale.

E qui veniamo al secondo motivo. C’è qualcosa che minaccia la straordinaria ricchezza di un gruppo formato da tutte persone diverse. La moda. La standardizzazione  coatta, che da una parte è operazione di mercato (anche i bambini ormai sono considerati veri e propri consumatori e come tali soggetti le cui scelte possono essere condizionate), ma dall’altra diviene ricerca e bisogno di accettazione, desiderio di consenso e necessità non verbale di appartenenza, anche a discapito della propria unicità. Allora un maestro con la gonna vorrebbe spiegare ai suoi bambini che bisognerebbe essere prima di tutto se stessi. Che si può camminare tranquilli anche in mezzo all’incredulità, alle critiche e alle opinioni diverse. Chiamiamolo pure relativismo delle idee. Perché il maestro con la gonna quando esce di casa la gente dà di gomito e lo osserva con sorrisetti di scherno, ma a lui non importa. Il sarong gli piace e cosa pensa a tale proposito la signora col cane o l’uomo in fila alla posta non è una cosa che gli interessa. Che lui quando è in gelateria mica sta a guardare quali gusti hanno messo gli altri sui loro gelati.

Informazioni su RP McMurphy

Chito e RP McMurphy vivono a Roma, ma qualcuno giura di averli visti più volte dalle parti di Maracaibo. Hanno un amore dichiarato verso tutti i sud del mondo e un’istintiva simpatia per chi vive ai margini.
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5 risposte a Il maestro con la gonna

  1. nonnalaura ha detto:

    ahahaha Flavio, avevo visto la foto che ti ha scattato Valentina, e mi sono ricordata di una cosa. Tempo fa a Giulietto (ndr: mio nipote in classe con Flavio) regalarono una maglietta rosa. Noi gli domandammo se gli piaceva e lui, con aria tra il furbetto e l’ovvio ci rispose: cosa pensate che non me la metto perchè è rosa? Che stupidaggini… e se la infilò immediatamente.
    Te lo volevo dire…

  2. sabota ha detto:

    e ti credo…la maggior parte chiede variegato Nutella. ..

  3. andreana ha detto:

    Avevo 8-9 anni e per le feste di Pasqua i miei mi avevano comprato un bel completino rosso e bianco, casacca e pantaloni. Tutta pimpante, felice del nuovo vestitino, la domenica mi sono recata in chiesa, ma il sacerdote che stava sul portone non mi ha fatto entrare: disse che in pantaloni sembravo un maschiaccio e che dovevo tornare a casa a cambiarmi. Quel giorno non sono tornata a messa, le mode si sono alternate negli anni, i preti si sono relativamente adeguati ai cambiamenti ma io credo di essere rimasta sempre un po’ maschiaccio.

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