Sfatiamo un tabù. I bambini possono litigare. Non c’è niente di strano. Litigare è una delle tante esperienze che possono capitare all’interno di un gruppo classe che impara sul campo il significato della relazione con l’altro e apprende i meccanismi che regolano gli equilibri del crescere insieme. La classe di una scuola primaria rimane pur sempre il luogo migliore dove fare certe esperienze, che poi fuori di lì diventa tutto più complicato.
Otto ore al giorno insieme per otto mesi consecutivi. Moltiplicato per cinque anni. Se non capitasse di litigare non saremmo ventidue persone, ma una compagnia di cherubini adagiati sulle nuvole o una batteria di viti per il legno dentro una confezione da Bricofer, il che, da un punto di vista della vitalità, ho idea che sia più o meno la stessa cosa.
Allora litighiamo. Impariamo che per litigare, come per tutto il resto, ci sono delle regole. Che litigare non è mica abitare la terra del vale tutto. Che litigare non significa non volersi bene, anzi, molte volte racconta proprio il contrario, perché il non volersi bene si manifesta abitualmente col restare reciprocamente indifferenti. E gli indifferenti non litigano. Neanche si guardano.
Litighiamo. Non c’è niente di male. Cogliamo questa occasione per sperimentare e portare alla luce una parte di noi. Quella parte che normalmente resta nascosta e magari fatichiamo a conoscere.
Tra i litigi che possono accendersi in classe hanno una loro specificità le prese in giro. Anche queste però molto spesso andrebbero depotenziate e soprattutto spogliate della facile lettura che rende il bambino che prende in giro un soggetto da redarguire e il bambino preso in giro un soggetto da proteggere semplicemente con la condanna del primo. La presa in giro frequentemente evidenzia invece due fragilità e il lavoro del maestro non può trascurare questa doppia verità.
Ricordo anni fa A divertirsi a prendere in giro B per la sua statura. Il fatto che il nome di B facesse rima con nano sembrava legittimare la cantilena che A ripeteva come un mantra scatenando la rabbia incontenibile del secondo. Il paradosso era rappresentato dal fatto che B in verità era alto almeno il doppio di A. Il meccanismo di quella presa in giro non si spiegava allora con l’esercizio di una malignità che puntava l’accento su una oggettiva debolezza di B. Era invece innescata dalla soddisfazione di vederlo esplodere in escandescenze pirotecniche capaci di interrompere la normalità della nostra giornata scolastica con una pioggia di oggetti scagliati ovunque e grida inumane come accompagnamento.
Bisognava cercare certamente di lavorare sull’animosità di A, capire da dove venisse quel suo ostinato bisogno di trovare in un compagno una vittima sacrificale, guarirlo da quell’abitudine e spezzare quella catena. Ma non bastava. Era necessario non cadere nell’errore di credere che il problema fosse tutto da quella parte del fiume. Persuadere A a smetterla avrebbe apparentemente consolato B, che però sarebbe rimasto con le sue instabilità e le sue insicurezze. Uguale attenzione meritava il lavoro che andava fatto con lui. Arrivare a comprendere dove avessero radici quei suoi scatti d’ira, così irragionevoli e sproporzionati da prorompere ogni qual volta veniva etichettato come nano da un bambino che avrebbe potuto mettersi in tasca.
I genitori di B non li convinsi mai. Per loro il problema era esclusivamente nella fastidiosa intemperanza di A. E quel maestro che rifiutava di trovare un colpevole, che non puntava il dito da una parte, ma cercava di leggere quei contrasti come un’opportunità concessa a entrambe le parti per uscirne fuori cresciute, alla fine perse anche la loro fiducia. Tutto si sarebbe dovuto risolvere con una punizione esemplare. Che diamine.
Ps
Il disegno in copertina (da Calvin & Hobbes) è di Bill Watterson.

