Sulla scuola digitale

Sono anni che il digitale è entrato nella scuola, sgomita, e cerca sempre più spazio. Ora il momento è propizio. L’emergenza del coronavirus ha sospeso la didattica tradizionale. Le scuole sono chiuse. Colossi come Amazon, Google, Wind, Fastweb, Microsoft, Connexia, Vodafone, Cisco, Pearson, infilato in fretta il vestito buono della pubblica utilità, vanno all’assalto del mercato della didattica duepuntozero, quella da fare a distanza. La chiamano perfino solidarietà digitale.

Le piattaforme digitali per una scuola online, o programmi di e-learning, come devi dire se ti prende la smania di infilare termini anglofoni con l’idea di cavalcare meglio la modernità, prolificano come funghi dopo una buia giornata di pioggia. Ce n’è per tutti i gusti: Fidenia, Edmodo, Ellie, Axios, Schoology, Otus, Weschool, Wiggio, Classmill, Kahoot, TinyTap. Un tripudio.

I piani degli ultimi governi, tutti orientati a semplificare il compito educativo e formativo della scuola, intervenendo finanche sul ruolo dell’insegnante, sempre più somministratore di competenze valutabili oggettivamente, sempre più oberato da formalismi e burocrazia, e sempre meno in grado di dedicarsi alla funzione propria dell’insegnamento, quella di offrire se stesso in un rapporto dialogico con i propri alunni, fanno di colpo un pericoloso balzo in avanti. Il rischio adesso è che, passato il momento di emergenza, la scuola digitale entri in qualche modo nella sintassi scolastica. Non a caso il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina si augura che l’emergenza sia la spinta per rilanciare l’innovazione didattica. Innovazione. La chiama così.

E i docenti? I docenti cosa fanno? Fanno fronte tranquillizzando le famiglie sul fatto che se anche la scuola fosse chiusa per due mesi non succederebbe niente? Che la vita scolastica non è la corsa dei cento metri che se rallenti poi finisce che perdi? Che basterebbe che gli studenti ne approfittassero per riempire magari le lacune e riguardare le cose fatte? No, i docenti cascano nel tranello della didattica digitale, nella corsa a completare i programmi, nella febbre di un’attività a cui non si può rinunciare. Incalzati spesso dalle famiglie, inviano tutorial, preparano lezioni, vanno avanti nel programma, somministrano verifiche, correggono online e riempiono di voti il registro elettronico. La scuola insomma continua, anche senza le persone.

La scuola a distanza è una non scuola. Se insegnare fosse questo gli insegnanti non servirebbero neanche. E non servirebbero le classi. Insegnare non è indicare in quale video un personaggio di un cartone animato ci dice le regole di matematica o di italiano. I bambini, i ragazzi, alzano la mano. Non hanno capito, chiedono, hanno bisogno di altre parole, hanno bisogno di confronto, di dialogo, di amalgamare energia.

Per dirla con le parole di Zygmunt Bauman, non possiamo lasciare che la connessione si sostituisca sempre di più alla relazione. E allora per favore almeno non chiamiamola scuola digitale. La scuola è un’altra cosa.

Informazioni su RP McMurphy

Chito e RP McMurphy vivono a Roma, ma qualcuno giura di averli visti più volte dalle parti di Maracaibo. Hanno un amore dichiarato verso tutti i sud del mondo e un’istintiva simpatia per chi vive ai margini.
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6 risposte a Sulla scuola digitale

  1. Ivan Cervesato ha detto:

    Caro Maestro,
    sono concorde con te in tutto e per tutto. La scuola è prima di tutto relazione, la scuola si fa a scuola e la “scuola a distanza” è contraddizione in termini, pure autonegazione o forse espressione neppure falsa, ma semplicemente “priva di significato” (tanto per evocare, molto alla buona, Schlick, Neurath, Carnap…). Molto Difficile – forse impossibile – far passare contenuti in assenza di relazione. Eppure, eppure solo in apparenza (credo) in contraddizione, io – antitecnologico per eccellenza – ho imparato, con pazienza e in questi giorni di follia, nevrosi e preoccupazione, come si carica un video su Youtube. Sto imparando, con gran fatica e stress, come far avanzare ugualmente i miei ragazzi in un apprendimento senza il quale la loro preparazione – sono convinto – resterebbe irrimediabilmente monca. Lo faccio “mettendoci la faccia” (come si usa dire con espressione poco felice ma questa volta letterale): cercando in video di non commettere quegli errori che in vivo, in classe, si possono aggiustare strada facendo – e anzi imparando da essi – e qui invece no, restano cristallizzati… Una faticaccia, insomma, ma che mi sembra l’unico piccolo contributo che possa dare in questo momento. Ma i miei studenti li sento tutte le sere, in una “chat whatsapp” (si dice così, credo), in cui ci raccontiamo anche, spesso schersozamente come vanno le cose. O parlando di musica, di film, di qualsiasi cosa che possa mantenere aperta, pur in lontananza, quella dimensione di relazione da cui siamo partiti e che possa anche distoglierci almeno un po’ dall’orrore che stiamo vivendo e che mai avremmo pensato – credo – di vivere.
    La sera, tutte le sere, invio loro “la canzone della buonanotte”: un breve brano musicale (da Albinoni a Vera Lynn, da De André a Chopin, non importa). Ci hanno fatto l’abitudine, e anche io. Un modo per tenere viva – appunto – la relazione. In questo caso, persino io debbo riconoscere alla “tecnologia-mezzo” (e giammai “tecnologia-fine”) una capacità – diciamo così – salvifica. Un abbraccio (per quelli virtuali si può ancora).

    • renata puleo ha detto:

      Ivan, stuopendo. Grazie alle persone come te, come il mio grandissimo amico Flavio, come tutte le Maestre e i Maestri con cui ho lavorato da “Direttrice Didattica”, amo ancora la scuola e provo, nel mio modesto ruolo in quiescenza, a impegnare tempo, studio, letture per arginare la sua completa messa ai margini.
      Quanto a piattaforme, a conoscenza usurpata dal marcato, rubo una considerazione a un docente di scienze della finanza (e sì, succede): fu il CERN a ideare il www che non brevettò i codici ma regalò alla collettività. Nella logica dell’estrattivismo operato sui saperi di tutti, sette aziende top ten (tra quelle elencate da Flavio) sono riuscite a farne un oligopolio. I governi si sono distratti, soprattutto quelli socialdemocratici. Un abbraccio

    • RP McMurphy ha detto:

      Ciao Ivan, la tua (come quella di molti altri docenti) continua a essere una scuola, una scuola di relazione, al meglio delle possibilità che ora ci sono concesse. Le mie perplessità riguardano una scuola del tutto impersonale, quella che va avanti con schede, video freddi e piatti, valutazioni e registri elettronici, una scuola che “la faccia”, come la chiami tu, la elimina del tutto. La faccia e tutto ciò che dovrebbe costituire l’essenza del nostro lavoro. La mia è anche la preoccupazione che quello che viene definita “innovazione didattica” finisca per caratterizzare la scuola di domani (sono in molti a spingere in questo senso).

      • andreana ha detto:

        Preoccupazione che condivido pienamente. La cosa che mi spaventa di più è che a spingere sul pedale innovativo siano proprio molti docenti. Difficile mettere un freno alla tecnologia che avanza. Siamo figli del tempo che viviamo. Ma non capisco la frenesia di chi fino al 4 marzo mi chiamava in aula per aiutarla ad avviare un cd e oggi propone piattaforme,classi virtuali, accecata dalla passione della didattica a distanza. Forse questa improvvisa passione “virale” nasconde l’incapacità di stare in mezzo ad una classe reale. Sono certa che tanti miei colleghi, che oggi chiedono a gran voce l’attivazione di classi virtuali, torneranno a sedere in collegio docenti e, come sempre prima d’ora, non avranno niente da dire. Credimi,ho più paura di tutto questo che del virus. La tristezza è tanta.

  2. Pingback: Controesempi – 7 – Concetti Contrastivi

    • RP McMurphy ha detto:

      Quando è capitato ho sempre pubblicato anche i commenti che non condividevano il mio pensiero. Sul blog di concetticontrastivi invece non mi sembra ci sia la possibilità di esprimere il proprio parere. Io non considero il “digitale” come unicum e certo non lo respingo in blocco. Minoritarismo solo distruttivo? Senza autentica riflessione? Sono espressioni pesanti e qualcuno le potrebbe considerare perfino offensive. Io dico che ognuno è libero di leggere le parole che scrivo come vuole, ed è libero anche di non capirle.

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